Come 'fare arte' nei videogiochi

Come 'fare arte' nei videogiochi

Alcune considerazioni dopo aver completato The Evil Within: il nuovo titolo di Shinji Mikami stenta a ingranare ma è un continuo crescendo, con una parte finale decisamente spiazzante. Mikami impiega alcuni espedienti che aveva utilizzato in altri suoi precedenti giochi.

di pubblicato il nel canale Videogames
 

C'è soprattutto una differenza tra un gioco come Destiny e The Evil Within: nel secondo caso gli autori si sono sforzati di andare alla ricerca di quelle trovate artistiche che non solo possano consentire un maggiore coinvolgimento del giocatore, ma che allo stesso tempo siano in grado di rimandare ad altri significati. So che molti non apprezzeranno quanto sto per scrivere, ma il media videoludico è ormai un media maturo e non può limitarsi a una semplice funzione di interazione/esplorazione.

Alcuni tra i migliori videogiochi degli ultimi anni, e penso a The Last of Us e a BioShock Infinite principalmente, offrono dei contenuti che fanno pensare e che emozionano il giocatore. Non si tratta semplicemente di sparare, di andare avanti e di trovare delle strategie efficaci. Gli autori, piuttosto, hanno cercato di amalgamare la parte dell'interazione con quella della narrazione, trovando un bilanciamento che fino a qualche anno fa sembrava irraggiungibile.

In The Evil Within in certi momenti sembra di trovarsi di fronte a espedienti pensati semplicemente per creare dei rimandi, per far emozionare o per spiazzare il giocatore, ovvero a trovate che migliorano la base artistica del gioco.

E quando gli autori iniziano a ragionare in questo modo allora diventa possibile trovare dei punti di contatto tra opere dello stesso autore o opere di autori diversi ma in qualche modo vicini tra di loro. Ecco che nasce lo stile. Come è possibile riconoscere lo stile di un famoso regista guardando film diversi, ecco che possiamo trovare dei punti di contatto tra l'ultimo titolo di Mikami e i precedenti. La posizione del personaggio quando sguaina la pistola, così come il suo muoversi impacciato, con animazioni quasi volutamente approssimative, evidentemente sono dei punti fermi ai quali Mikami non vuole rinunciare. E le analogie non riguardano solo le meccaniche di gioco o di movimento.

Inoltre, non si può trascurare una certa vicinanza stilistica tra quei videogiochi provenienti dall'oriente. Penso a The Evil Within, ma anche al recente Bayonetta 2, così come ai Metal Gear Solid: si tratta di immergere il giocatore in un tourbillon di immagini spiazzanti, dove la precedente è pensata per mettere il giocatore in difficoltà nell'interpretare la successiva. In questi titoli sembra quasi che gli autori vogliano deliberatamente confondere il giocatore, e inserirlo in un contesto in cui non ha più punti di riferimento.

Il tutto si oppone, invece, alla maggiore leggibilità delle opere occidentali. I giochi provenienti soprattutto dagli Stati Uniti sembrano avere un'ansia maggiore a voler dire qualcosa, a trasmettere un sentimento ma anche un giudizio sulla società odierna. In Giappone le cose non sono così: abbiamo contenuti "folli" per certi versi e sicuramente immaginifici e molto spesso fortemente distaccati dalla concreta realtà.

Nel discorso stilistico possiamo fare rientrare il ragionamento sulle inquadrature ricorrenti e su un certo uso della musica e degli effetti sonori. La classica inquadratura alle spalle addirittura è stata trasmessa dai videogiochi al cinema, mentre storicamente in altri casi è avvenuto il contrario. Un discorso del genere si può fare per la musica, con temi uditivi che in The Evil Within cambiano a seconda dello scenario in cui si trova il giocatore e nel momento in cui passa da uno scenario all'altro, o da una stanza all'altra. La contestualizzazione uditiva per Mikami è molto importante, e assurge assolutamente a tema artistico in questa produzione, proprio perché utilizzata al fine di migliorare il coinvolgimento.

In The Evil Within abbiamo dei momenti ideati esclusivamente per corroborare la base artistica del gioco. Lo possono essere quelle videate completamente nere, che il giocatore scambia per qualche attimo per schermate di caricamento. Ma poi si rende conto che deve accendere la lanterna di cui il protagonista è dotato per poter vedere qualcosa e continuare a giocare. Un'interazione apparentemente inutile, che per questo rimanda alla sfera dell'artisticità.

Un altro elemento da sottolineare è il ritorno in location di gioco già visitate in passato, ma che adesso assumono altre connotazioni e un significato non rintracciabile nel primo walktrhough. Una sensazione che al cinema, mancando la dimensione dell'interazione, non può esserci con lo stesso livello di profondità. Non solo qui ci troviamo ad interagire con oggetti che una volta producono un effetto e hanno un certo significato, mentre la volta successiva appaiono in forma e significati completamente differenti, ma soprattutto bisogna prendere delle decisioni che possono avere un impatto sullo stesso senso della storia, che si divarica rispetto al primo walktrhough.

Molti di questi giochi onirici, inoltre, fanno vivere al protagonista, e di conseguenza al giocatore, un viaggio che solo apparentemente non ha contatti con la realtà ma che invece offre un parallelismo tra mostri immaginari e personaggi della vita reale di quel personaggio, tra luoghi volutamente altisonanti e realtà concreta. Penso in questo caso soprattutto a BioShock Infinite.

In The Evil Within, invece, non abbiamo un parallelismo tra realtà e finzione: sembra che ci sia un accenno di rimando di questo tipo, ma l'esperienza rimane confinata al ritrovarsi del protagonista all'interno del cervello di un'altra persona, una realtà quindi distaccata dalla propria, con rimandi esclusivamente attinenti alla vita di quella persona. Per quanto il titolo di Mikami rimanga sempre piuttosto fumoso nella storia, riesce comunque a produrre nel giocatore quell'effetto di stupore con un finale difficilmente prevedibile.

Nell'ultimo di Mikami non riveneniamo neanche tutta la sfera che attiene alla possibilità di modificare la storia, e ottenere un risultato e dei rimandi anche molto differenti rispetto a quanto originariamente ideato dall'autore. Si tratta di un elemento che ritroviamo in molti altri giochi, e penso a Dragon Age o a Mass Effect, così come a Heavy Rain. Ma ci ritroviamo sempre in casa dell'oste, o dell'autore, che è come se desse un lasciapassare momentaneo al giocatore. Gli dà semplicemente il permesso di modificare qualcosa, elemento che ovviamente manca al cinema, ma sempre all'interno di una cornice ben precisa, che permette sempre all'autore di avere la parola ultima su quello che è il messaggio dell'opera.

Un altro concetto molto interessante è quello che potremmo definire personaggio-marionetta. In molti videogiochi, il giocatore si trova a metà strada tra il poter interagire diffusamente con ambienti e personaggi e, invece, il dover sottostare a precise regole e definizioni. Con il caso estremo stavolta del primo BioShock, in cui questo concetto era sontuosamente sottolineato, in cui bisogna rispettare pedissequamente il copione dell'autore "padrone", con il giocatore che è portato a compiere azioni che non vorrebbe compiere, in certi casi efferate. È anche così che si crea senso e si fanno dei rimandi ad altro, innescando delle reazioni e dei sentimenti che derivano dal fatto di "essere riunchiusi in una gabbia", impotenti nel potersi giocare con l'autore "padrone" la possibilità di dare un senso a quello che sta avvenendo.

Noi giornalisti videoludici soffriamo proprio per questo: non riusciamo a trasmettere fino in fondo il valore del coinvolgimento che certi giochi artistici riescono a dare. C'è chi ha sensibilità, semplicemente perché ha fatto queste esperienze, e chi ha molta meno sensibilità sul tema.

In questo ragionamento bisogna parlare anche della difficoltà intrinseca dei videogiochi ad essere completamente mainstream. Molti esponenti del genere, infatti, presentano delle barriere insormontabili per buona parte del pubblico potenziale. Questa fetta del pubblico, semplicemente, non potrà mai accedere a un The Evil Within, che comunque è uno dei giochi più difficili tra quelli rilasciati nell'ultimo periodo, perché faticherebbe moltissimo a superare alcune sezioni di gioco. Questo impedisce ai videogiochi, perlomeno a un certo tipo di videogiochi, di essere un media completamente trasversale, e anche così si spiega il successo di Twitch e compagnia...

Ma credo che un'esperienza artistica di questo tipo, comunque innovativa rispetto a quanto il cinema può offrire, sia da consigliare a qualsiasi tipo di utente.

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3 Commenti
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LukeIlBello20 Ottobre 2014, 14:57 #1
mi è piaciuta quest'analisi, sono d'accordo sulla differenza tra cinema americano e quello jappo-koreano (il 2 ovviamente 10000 volte meglio), col primo impegnato
in n-mila stereotipi buoni solo per chi non ci capisce nulla,
e il 2 che fa il vero cinema..

quindi bravo redattore
Therinai20 Ottobre 2014, 17:38 #2
Originariamente inviato da: Articolo
non riusciamo a trasmettere fino in fondo il valore del coinvolgimento che certi giochi artistici riescono a dare

Impossibile farlo, è un aspetto puramente soggettivo. Al limite si può accennare ad un'indicazione di massima, o semplicemente riferirsi esplicitamente alla propria esperienza.
Anzi al riguardo credo che solo con un videogioco si può azzardare almeno questo. Già il valutare il coinvolgimento di un film suona male, chiunque è pronto ad obiettare "a me piace/non piace". Una valutazione di questo tipo per produzioni musicali, letterarie e di altra natura mi pare proprio impensabile.
sdfsdfdfsdfsdfdfsfd21 Ottobre 2014, 18:27 #3
Veramente un bel gioco.. si vede che ha preso un po' dai Resident Evil

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