Videogiochi, quale impatto sul cervello?

Videogiochi, quale impatto sul cervello?

Abbiamo coinvolto tre psicologi professionisti in un'indagine a proposito dell'impatto che i videogiochi hanno sul cervello dell'essere umano. Passando in rassegna gli studi che sono stati fatti fino a oggi, cerchiamo di capire i benefici, ma ovviamente andiamo alla ricerca anche dei fattori controproducenti, andando ad indagare il problema della dipendenza. C'è una differenza tra titoli emotivi e competitivi? È una delle domande che abbiamo posto a Giuseppe Riva, Docente di Psicologia della Comunicazione dell'Università Cattolica di Milano; a Luca Mazzucchelli, Vice Presidente dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia; e a Mauro Lucchetta, Psicologo Clinico dello Sport e delle Nuove Tecnologie.

di pubblicato il nel canale Videogames
 

Benefici, nonostante i limiti metodologici

Come incidono i videogiochi sul nostro cervello? Come lo modificano e quali vantaggi apportano? E, allo stesso tempo, quali sono invece i fattori controproducenti e come si combatte il problema della dipendenza? Ci sono differenze a livello di impatto sul cervello tra titoli emotivi e competitivi? Sono tutte questioni con cui un videogiocatore dovrebbe avere familiarità perché inevitabilmente giocare per lunghi periodi di tempo produce dei cambiamenti in noi stessi, evidentemente non sempre positivi.

Prima di iniziare va chiaramente specificato che si tratta di una disciplina molto spigolosa per il semplice fatto che non ci sono ancora studi completamente esaustivi e non si può dare risposta a tutte le domande. Ci sono comunque tantissimi studi sull'impatto dei videogiochi sul cervello, alcuni dei quali riassunti in questo documento pubblicato sul sito del National Center for Biotechnology Information.

Nello specifico, chi frequentemente dedica tempo ai videogiochi d'azione spesso supera chi invece non è un giocatore abituale nelle misure relative alle abilità percettive e cognitive. Il fatto che i videogiochi migliorino trasversalmente vari aspetti della cognizione è molto interessante perché normalmente i tradizionali metodi di formazione influiscono su un unico aspetto e raramente migliorano gli altri.

"Molti studi evidenziano effetti positivi su percezione e cognizione ma bisognerebbe migliorare la qualità degli studi per arrivare a risultati conclusivi. In particolare non ci sono indicazioni precise sulle differenze tra titoli emotivi e competitivi", ci ha detto il Prof. Giuseppe Riva dell'Università Cattolica di Milano quando gli abbiamo chiesto un aiuto per analizzare in profondità il documento.

La seguente tabella mostra nel dettaglio quali sono le abilità cognitive che risultano in qualche modo potenziate in quei soggetti che usano frequentemente i videogiochi. Come vedete, gli studi non convergono sulle stesse abilità, mentre sembrano esserci benefici diffusi un po' su tutta l'area della cognizione. Inoltre, i videogiochi offrono benefici anche in tipi di abilità che non sono strettamente collegate alle attività presenti all'interno del gioco, il che conferma un certo tipo di sostegno trasversale a buona parte della sfera della cognizione.

I tempi di risposta, la rilevazione dei cambiamenti, il giudizio temporale, le abilità visuo-motorie, l'enumerazione, l'inseguimento visivo di oggetti in movimento, la sensibilità al contrasto sono alcune delle aree maggiormente coinvolte durante il gaming. Nonostante i limiti metodologici che ci accingiamo ad esaminare, gli psicologi trovano interessanti questi studi proprio perché i videogiochi sembrano andare ad impattare su una moltitudine di aspetti cognitivi, ma anche per il dibattito pubblico che si è andato a creare sul tema.

La maggior parte degli studi evidenzia come i giocatori facciano segnare misure superiori rispetto ai non giocatori, ma questo non vuol dire automaticamente che ciò sia dovuto alle abitudini di gioco. Insomma, la differenza potrebbe essere determinata da elementi esterni al gaming, un terzo fattore infatti potrebbe influenzare sia le capacità cognitive che di gioco. La selezione del gruppo di persone alla base dello studio è molto delicata perché potrebbe influenzarne l'esito e, in definitiva, contribuire all'imprecisione metodologica di cui prima si è parlato. Se i giocatori, ad esempio, sapessero che lo studio viene realizzato allo scopo di individuare gli effetti benefici del gaming potrebbero essere ulteriormente motivati a portare positivamente a compimento i vari test a cui vengono sottoposti. I giocatori leggono spesso reportage sulla rete come questo, ovvero a proposito degli effetti benefici dei videogiochi sul cervello, e questo potrebbe spingerli a concentrarsi maggiormente. Inversamente, invece, i non giocatori potrebbero avere troppe poche motivazioni, e non essere sufficientemente concentrati per i test. In questi casi si parla rispettivamente di effetto placebo ed effetto nocebo.

Per tali motivi, una ricerca sulla materia ben fatta dovrebbe nascondere lo scopo stesso dello studio durante la fase di selezione dei partecipanti. È fondamentale che i partecipanti non siano inizialmente dei giocatori, per poi essere allenati al gaming nella prima parte dello studio. Ma anche in termini di acquisizione dell'esperienza bisogna evitare gli effetti placebo.

Nella documentazione a cui stiamo facendo riferimento, per far capire questo passaggio si cita lo studio di Green e Bavelier del 2003, che è lo studio cardine sul tema considerato pionieristico nell'indagine tra la correlazione tra il gaming e il miglioramento cognitivo e percettivo. In molti aspetti risulta ormai superato e anacronistico, ma rimane il merito di aver dato il via al dibattito sul tema. In questo studio, il campione è stato suddiviso in due gruppi: il primo è stato fatto allenare con Tetris, mentre il secondo con un titolo d'azione dal ritmo intenso, ovvero Medal of Honor. Mentre i soggetti del primo gruppo non manifestavano alcun miglioramento in occasione della seconda esecuzione del test dopo aver completato le sessioni di gioco, coloro che avevano giocato a Medal of Honor evidenziavano un netto miglioramento in una serie di compiti attinenti l'attenzione e la percezione. Green e Bavelier ritenevano, infatti, che per gestire adeguatamente il gioco e le caotiche situazioni di guerra che vi si presentano, i giocatori avrebbero dovuto distribuire la loro attenzione su un'area visiva più ampia.

Per verificare i miglioramenti all'attenzione sulle aree visive ampie Green e Bavelier sottoposero i partecipanti a un test di focalizzazione dell'attenzione visiva. Chiesero ai partecipanti di portare a termine due compiti distinti in due fasi separate: rilevare oggetti luminosi nella parte periferica dell'UFOV (Useful field of view) e individuare mentalmente forme simili a blocchi mentre ruotano su sé stesse. Questo studio fece molti proseliti, ma allo stesso tempo destò molte perplessità e fu usato come riferimento per le indagini sugli effetti placebo di cui stiamo qui parlando.

È probabile, insomma, che coloro che fecero parte del gruppo di giocatori di Tetris pensassero che il loro allenamento prevedesse un miglioramento ad immaginare forme geometriche in rotazione, mentre il gruppo di addestramento al gioco d'azione avesse finito per pensare che sarebbe stato opportuno migliorare nell'individuazione degli oggetti nell'UFOV. Insomma, in entrambi i casi lo studio potrebbe rilevare un miglioramento legato all'aspettativa che i partecipanti si sono fatti piuttosto che su quello che è il beneficio che si ottiene dal gioco. Questi studi non sono in definitiva completamente attendibili a meno che non si prendano delle precauzioni per evitare che si verifichino effetti placebo tra le fasi di training e di controllo.

Quello di Green e Bavelier resta comunque uno studio importantissimo per i videogiochi, anche perché a quei tempi destò molto scalpore e fu pubblicato anche su Nature. Proprio la fase di allenamento fece molto discutere, visto che i partecipanti furono sottoposti al training per sole 10 ore. Se 10 ore di gaming producono effetti così tanto evidenti, allora cosa può succedere se ci si espone ai videogiochi per intervalli di tempo più prolungati? Più recentemente Bavelier è tornato sui suoi studi, dilatando l'allenamento fino alle 50 ore, e registrando miglioramenti a percezione e cognizione sempre più evidenti proporzionalmente alla quantità di tempo dedicata al gaming. In particolar modo è la sensibilità al contrasto, ovvero la capacità di percepire un oggetto rispetto al suo sfondo, a godere dei maggiori benefici dal gaming.

Gli esperimenti di Bavelier sui miglioramenti alla capacità di immaginare forme in rotazione e di prestare attenzione a oggetti che non si stanno osservando direttamente dovuti ai videogiochi sono stati ripetuti da altri, come nel caso dello studio di Jing Feng, Ian Spence e Jay Pratt dell'Università di Toronto. Chandramallika Basak, invece, ha cercato di approfondire la tematica sui miglioramenti apportati dai videogiochi alle capacità cognitive degli anziani, utilizzando il gioco di strategia in tempo reale Rise of Nations. L'ipotesi dei ricercatori in questo caso è che la natura del gioco potesse migliorare le "funzioni gestionali", ovvero la capacità di distribuire efficacemente le risorse cognitive fra una moltitudine di compiti. E lo studio finiva proprio per individuare un sostanziale trasferimento dal videogioco a una varietà di misure di laboratorio delle funzioni in analisi.

Tornando al tema giocatori vs non giocatori, gli stessi Green e Bavelier dimostravano che i giocatori esperti di videogiochi producevano sempre risultati migliori rispetto ai principianti nei compiti positivamente influenzati dal training. Perché succede questo? Per ottenere abilità cognitive paragonabili tra un giocatore esperto e uno principiante servono tantissime ore di allenamento nel secondo caso: stando agli studi anche 50. Questo dipende dal livello di dedizione proprio dei giocatori esperti che, come sapranno bene alcuni dei nostri lettori, finiscono per dedicare anche 20 ore alla settimana al loro hobby preferito. Questo da una parte scardina l'assunto precedente (già 10 ore di training erano sufficienti per evidenziare i primi benefici), ma finisce per invalidare l'intero presupposto di partenza, ovvero che i videogiochi possano apportare benefici trasversali all'intero insieme di abilità percettive e cognitive. Insomma, se i videogiochi richiedono così tanto tempo per apportare benefici, sarebbe più utile dedicarsi alla specifica attività per ottenere miglioramenti circostanziati.

Insomma, tutte queste testimonianze evidenziano come in questo campo sembrano esserci più differenze sulla base delle variabili al metodo di indagine che per fatti concreti. Altri studi rivelano come i giocatori esperti siano più sensibili nel riconoscere le differenze strategiche che si verificano all'interno del videogioco. Anche in quel caso, però, bisognerebbe analizzare se le differenze comportamentali sono dovute a più spiccate abilità cognitive o, piuttosto, a fattori legati alla percezione e alla memoria, ad esempio dovuti al fatto che i giocatori esperti sanno come il gioco si evolverà e si "comporterà" sulla base dell'esperienza pregressa.

Altro campo che è stato indagato negli anni successivi ha riguardato i presunti miglioramenti quando si rieseguono i test per una seconda, terza volta, e così via, dopo l'allenamento ovviamente. Uno studio in particolare, di Ackerman e altri, 2010, riporta risultati abbastanza controversi da questo punto di vista. Mentre un presupposto cruciale della teoria dell'apprendimento è che la pratica migliora le performance, Ackerman evidenzia come non ci siano miglioramenti alle abilità cognitive legate alla riesecuzione del test. Si ha la sensazione, allora, che sia l'allenamento, ovvero la prima esposizione al gioco, a dare i benefici migliori, piuttosto che la continua esposizione al gioco stesso. Anche in questo caso l'inesattezza del risultato potrebbe dipendere da come sono approntate le fasi di controllo e di esperimento: una base di partenza anomala, insomma, potrebbe invalidare tutti i dati dello studio.

La tabella che abbiamo visto prima mostra quali impatti può avere l'esposizione ai videogiochi sul sistema cognitivo, ma allo stesso tempo evidenzia le criticità alla metodologia alla base delle analisi, e quindi le varie problematiche legate ai possibili effetti placebo e alla distinzione tra giocatori e non giocatori all'interno del campione dei partecipanti, come abbiamo visto nel corso dell'articolo. Nel paper sul sito della Ncbi si suggeriscono i seguenti possibili adeguamenti metodologici.

Per quegli studi che prevedono la presenza di giocatori esperti e principianti all'interno del campione, i reclutatori dovrebbero sempre nascondere la natura dello studio e quindi evitare che i giocatori si rendano conto che sono stati scelti proprio per le loro abilità nel gaming. Ai partecipanti dovrebbero essere chieste delucidazioni sulle esperienze pregresse solo alla fine dello studio o durante una fase di preescrening molto distante nel tempo rispetto ai test di laboratorio. Inoltre, alla fine di ogni studio bisogna chiedere ai partecipanti se sono a conoscenza di altre ricerche o articoli giornalistici a proposito dei benefici del gaming (o del brain training) in modo da poter verificare se questo tipo di conoscenze possono influenzare le performance durante i test.

Inoltre, sia il gruppo sperimentale che quello di controllo devono poter evidenziare miglioramenti per ogni misura di esito. Tutti i dettagli sui metodi utilizzati, infine, devono essere pubblicati. E questo riguarda anche le strategie di reclutamento e le misure di esito.

Naturalmente, si tratta di insidie metodologiche che non riguardano solamente gli studi sui videogiochi, ma tutti gli studi clinici, gli studi con training e le indagini che riguardano l'expertise. Ma nel caso degli studi di cui abbiamo parlato nel corso dell'articolo sembrano aver avuto un impatto notevole, e per questo il dibattito all'interno del mondo della psicologia ha cercato di individuare altri strumenti che in un modo o nell'altro possano confermare gli esiti. Ad esempio, il Neuroimaging funzionale potrebbe essere associato alle ricerche grazie alla capacità di misurare il metabolismo cerebrale, al fine di analizzare e studiare la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni cerebrali.

 
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